«Sono in fuga
dalle pecche
del nostro Paese»
La migrazione nell'Europa orientale raccontata in un libro dell'economista bergamasco Ferrazzi
«Si sogna all'estero un'Italia che non c'è più»
Ma manca una vera strategia internazionale.
Di : Pierluigi Saurgnani
Racconta la migrazione nell'Est Europa di tante aziende italiane il libro «Me ne vado a Est» (Edizioni Infinito, 12 euro) dell'economista e pubblicista bergamasco Matteo Ferrazzi, 37 anni, da due anni in forza all'Unicredit di Vienna col compito proprio di seguire il mercato dell'Europa orientale, libro scritto a quattro mani con il giornalista perugino Matteo Tacconi, 34 anni. Sarà al centro di un dibattito domani in città.
Ma non è solo un libro di economia e di politica industriale, contiene anche acute annotazioni di costume sullo stato comatoso in cui versa il nostro Paese. È curioso, ad esempio, che a spingere tante nostre imprese in Romania, oltre al basso costo del lavoro, abbiano contribuito anche l'analfabetismo linguistico di non pochi imprenditori nostrani e la tv spazzatura (di cui l'Italia abbonda) seguita con assiduità dai romeni. Il feeling linguistico e subculturale ha creato la corsia preferenziale verso Bucarest. Tra quelle presenti all'Est, un'azienda italiana su quattro è in Romania.
Fenomeno poco studiato
Sarà anche per questi risvolti poco edificanti - e forse anche per occultare gli intenti speculativi della selvaggia delocalizzazione negli anni Novanta - che dell'Est Europa i mass media italiani hanno parlato poco in questi anni, tutti impegnati ad enfatizzare il ruolo della Cina. E invece, scrive Ferrazzi, «l'Est Europa fa la parte del leone nel processo di internazionalizzazione delle nostre imprese, il cui numero nell'Est è quattro volte superiore a quello delle aziende presenti in Cina». E questo nonostante sia già iniziato il trasloco di alcune fabbriche italiane dalla Romania all'Asia, dove i costi sono ancora più bassi, magari con tappa intermedia in Moldova, terra vergine di conquista.
«Nella mia attività - prosegue Ferrazzi - ho conosciuto tante storie imprenditoriali di italiani nell'Est Europa ma non vedevo un corrispettivo da un punto di vista mediatico. Pochissimi articoli sui giornali, nessun libro, una grande povertà di informazioni. Eppure notavo che i destini industriali dell'Italia si giocavano nell'Est Europa. Che ci piaccia o meno, non sarà la Cina ma l'Est Europa a cambiare lo scenario industriale italiano». Il libro, dunque, ha colmato un vuoto e ora sta suscitando l'interesse di stampa e tv.
L'autore distingue due diverse ondate migratorie. «I Novanta sono stati gli anni del Far West, quelli del tessile italiano che produceva articoli di basso valore aggiunto. Una migrazione improvvisata, alla mordi e fuggi. Poi c'è stata un'evoluzione, e oggi la fanno da padrone i servizi, le banche, le consulenze. Ormai nessuno delocalizza il tessile, l'Est non è la Cina, i salari della Repubblica Ceca e della Slovacchia sono simili a quelli del Sud Italia, soltanto quelli bulgari e romeni sono ancora bassi, sui 400 euro. Sul manifatturiero sono pessimista, alcune produzioni non torneranno più, dobbiamo fare servizi avanzati». Ma ad attirare gli imprenditori italiani a Est, soprattutto quelli di una certa età, è stato anche «il desiderio di riprodurre oltre confine quello che trent'anni prima avevano realizzato in Italia e che oggi è impraticabile nel nostro Paese». Il sogno, e il rimpianto, di «un'Italia più facile da conquistare e anche più felice e spensierata», completamente diversa da quella odierna: «Si fugge verso Est non perché l'Est sia la medicina di tutti mali. Più che altro si fugge dall'Italia, dalle sue lacune». Un Paese in declino, bloccato, depresso, corrotto e amorale «che non sta in piedi da molti punti di vista», «che ha vissuto troppi anni di fronte alle illusioni della tv».
Per Ferrazzi, è giusto andare all'Est non solo per le note ragioni (basso costo del lavoro e dell'energia, vantaggi fiscali, servizi pubblici e infrastrutture all'altezza, giustizia efficiente) ma «perché si impara molto, mettere il naso fuori è importantissimo». E non è tanto vero che occorre essere imprese di grandi dimensioni per espatriare. «Ci vanno anche aziende minuscole ma ben attrezzate. Una veneta, con dodici impiegati, ora collabora addirittura con la Nasa».
Solitari e disorganizzati
In ogni caso, si potrebbe fare rete e andare in gruppo, ma «purtroppo le aziende italiane sono molto litigiose fra di loro, non si parlano, e questo è un problema». Ecco emergere uno dei tanti difetti italici: l'individualismo, accompagnato dall'invidia e dalla gelosia. Ne segue un altro - anche questo tipicamente italiano -, la disorganizzazione: «Oltre a non parlare inglese, a non dialogare con gli altri e a non servirsi di manager, molti nostri imprenditori vanno all'Est "a spot", senza una strategia internazionale, come invece fanno gli altri Paesi europei. E mancano anche le strutture di supporto: l'Istituto per il commercio estero è in disarmo, mentre si sovrappongono iniziative nazionali e regionali».
La migrazione delle imprese è accompagnata da quella delle persone, che in Italia non trovano sbocchi lavorativi. «I giovani laureati pensano però soprattutto a Parigi, Londra e Barcellona, invece l'Est offre grandi possibilità, e non solo per i laureati». Un esempio? «Sono andato nella capitale della Moldova - conclude Ferrazzi - e non sono riuscito a trovare un caffé in centro. Un barista italiano farebbe una fortuna in quel Paese».
L'ECO DI BERGAMO, Venerdì 28 Settembre 2012