La strage dei bambini nella Siria in fiamme
- L'EC0 DI BERGAMO,Giovedì 06 Settembre 2012
Fulvio Scaglione
Segniamoci questo numero: 1.122. Sono i bambini che, secondo l'emittente Al Arabiya, sono morti in Siria dall'inizio della rivolta, poi diventata guerra civile. Ieri altri 25, nella giornata dei bombardamenti aerei che Assad ha lanciato contro Aleppo, i sobborghi di Damasco, le città ribelli di Homs e Hama. In Medio Oriente le famiglie sono numerose e tendono a restare unite. Così, ovunque sia arrivata la guerra, da Gaza a Bagdad, da Beirut appunto a Damasco, i bambini hanno sempre pagato il prezzo più alto. Ma quello cui assistiamo, e che le organizzazioni umanitarie definiscono «eccidio»,è un sacrificio ancora più atroce, soprattutto se paragonato alle violenze assai più modeste che altrove, dalla Tunisia al Marocco, dall'Egitto alla Giordania, hanno accompagnato rivendicazioni simili a quelle avanzate dai siriani.
Per una volta non sarà solo retorica dire che quei morti ragazzini pesano almeno in parte anche sulle nostre coscienze. Per due ragioni. È chiaro a tutti, e da lungo tempo, che Bashar al Assad come leader è «un morto che cammina». Non c'è alcun futuro per lui in Siria. Nemmeno se, per fare un'ipotesi ai confini della realtà, vincesse questa ormai sporchissima guerra. Troppo profonde le ferite che ha inferto al popolo e al Paese. Troppo vasti i lutti e i rancori che ha generato. Troppo generale, in Medio Oriente, il rifiuto nei suoi confronti, un rifiuto che il residuo appoggio dell'Iran rende solo più evidente.
Eppure, a dispetto di tutto questo, la diplomazia internazionale non è riuscita a partorire che un paio di iniziative fallite in partenza, affidate a «inviati speciali» di spessore (Kofi Annan prima, Lakhdar Brahimi dopo) ma impossibilitati ad andare oltre le belle parole.
Certo, Cina e Russia hanno boicottato i modesti piani e le deboli condanne dell'Onu. Ma si opponevano anche all'intervento in Iraq, che gli Usa realizzarono ugualmente, ottenendo in seguito anche il «timbro» delle Nazioni Unite. Il vero problema, quello che rimanda qualunque azione concreta, è che le potenze non hanno ancora deciso quale sarà il futuro assetto della Siria. Un Paese complesso, multietnico, privo di ricchezze naturali ma in una posizione che, dal punto di vista strategico, risulta decisiva per gli interessi di Israele, Turchia, Iran, Iraq e Libano, oltre che degli Usa e dei loro alleati, Arabia Saudita in testa. Le decisioni si pesano col bilancino, quindi sono lentissime. Nel frattempo i bambini muoiono.
La seconda ragione è ancor più facile da verificare. Provate a chiedere alle organizzazioni umanitarie quale sia la più comune reazione alle raccolte fondi lanciate per dare una mano ai siriani e ai bambini che cadono sotto le bombe. Indifferenza quando non vero rifiuto, così che le casse per le missioni d'aiuto restano vuote o quasi. Cosa che non succede, invece, quando l'emergenza riguarda l'Africa. Come se patire la carestia in Somalia a causa degli shaabab e del loro folle islamismo fosse più drammatico che morire in un bombardamento ordinato da un dittatore a fine corsa, come a suo tempo lo furono Saddam Hussein e Muammar Gheddafi.
C'è la crisi, tutti stringiamo un po' la cinghia, non si può donare come prima, d'accordo. Ma il timore è che questo atteggiamento riveli una diffidenza verso il Medio Oriente così generalizzata da trasformare tutti i suoi popoli in potenziali nemici. Quando proprio le vicende più recenti, con le drammatiche trasformazioni che si sono svolte sotto i nostri occhi, dovrebbero dimostrare che in quella regione vivono 350 milioni di persone in gran parte impegnate a sognare i nostri stessi sogni: pace, lavoro, benessere, un futuro per i figli.
Fulvio Scaglione
Segniamoci questo numero: 1.122. Sono i bambini che, secondo l'emittente Al Arabiya, sono morti in Siria dall'inizio della rivolta, poi diventata guerra civile. Ieri altri 25, nella giornata dei bombardamenti aerei che Assad ha lanciato contro Aleppo, i sobborghi di Damasco, le città ribelli di Homs e Hama. In Medio Oriente le famiglie sono numerose e tendono a restare unite. Così, ovunque sia arrivata la guerra, da Gaza a Bagdad, da Beirut appunto a Damasco, i bambini hanno sempre pagato il prezzo più alto. Ma quello cui assistiamo, e che le organizzazioni umanitarie definiscono «eccidio»,è un sacrificio ancora più atroce, soprattutto se paragonato alle violenze assai più modeste che altrove, dalla Tunisia al Marocco, dall'Egitto alla Giordania, hanno accompagnato rivendicazioni simili a quelle avanzate dai siriani.
Per una volta non sarà solo retorica dire che quei morti ragazzini pesano almeno in parte anche sulle nostre coscienze. Per due ragioni. È chiaro a tutti, e da lungo tempo, che Bashar al Assad come leader è «un morto che cammina». Non c'è alcun futuro per lui in Siria. Nemmeno se, per fare un'ipotesi ai confini della realtà, vincesse questa ormai sporchissima guerra. Troppo profonde le ferite che ha inferto al popolo e al Paese. Troppo vasti i lutti e i rancori che ha generato. Troppo generale, in Medio Oriente, il rifiuto nei suoi confronti, un rifiuto che il residuo appoggio dell'Iran rende solo più evidente.
Eppure, a dispetto di tutto questo, la diplomazia internazionale non è riuscita a partorire che un paio di iniziative fallite in partenza, affidate a «inviati speciali» di spessore (Kofi Annan prima, Lakhdar Brahimi dopo) ma impossibilitati ad andare oltre le belle parole.
Certo, Cina e Russia hanno boicottato i modesti piani e le deboli condanne dell'Onu. Ma si opponevano anche all'intervento in Iraq, che gli Usa realizzarono ugualmente, ottenendo in seguito anche il «timbro» delle Nazioni Unite. Il vero problema, quello che rimanda qualunque azione concreta, è che le potenze non hanno ancora deciso quale sarà il futuro assetto della Siria. Un Paese complesso, multietnico, privo di ricchezze naturali ma in una posizione che, dal punto di vista strategico, risulta decisiva per gli interessi di Israele, Turchia, Iran, Iraq e Libano, oltre che degli Usa e dei loro alleati, Arabia Saudita in testa. Le decisioni si pesano col bilancino, quindi sono lentissime. Nel frattempo i bambini muoiono.
La seconda ragione è ancor più facile da verificare. Provate a chiedere alle organizzazioni umanitarie quale sia la più comune reazione alle raccolte fondi lanciate per dare una mano ai siriani e ai bambini che cadono sotto le bombe. Indifferenza quando non vero rifiuto, così che le casse per le missioni d'aiuto restano vuote o quasi. Cosa che non succede, invece, quando l'emergenza riguarda l'Africa. Come se patire la carestia in Somalia a causa degli shaabab e del loro folle islamismo fosse più drammatico che morire in un bombardamento ordinato da un dittatore a fine corsa, come a suo tempo lo furono Saddam Hussein e Muammar Gheddafi.
C'è la crisi, tutti stringiamo un po' la cinghia, non si può donare come prima, d'accordo. Ma il timore è che questo atteggiamento riveli una diffidenza verso il Medio Oriente così generalizzata da trasformare tutti i suoi popoli in potenziali nemici. Quando proprio le vicende più recenti, con le drammatiche trasformazioni che si sono svolte sotto i nostri occhi, dovrebbero dimostrare che in quella regione vivono 350 milioni di persone in gran parte impegnate a sognare i nostri stessi sogni: pace, lavoro, benessere, un futuro per i figli.
Fulvio Scaglione
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