Fra Vincere male e perdere bene
Giorgio Gandola - L'ECO DI BERGAMO,17 febbraio 2013
Pioggia
di meteoriti sulle elezioni, non provocano ferite ma depressioni. Sono
le parole in libertà di Berlusconi, Grillo, ma anche Monti, Bersani e
Maroni per coprire la scarsa incisività dei programmi. Siamo alle
battute finali, l'intervallo sta per concludersi e il 25 febbraio
suonerà la campanella. Da quel momento tutti i leader politici che in
queste settimane giocano a chi la spara più grossa dovranno fermarsi.
Chi avrà vinto gioirà e chi avrà perso dirà di avere pareggiato. Ma
soprattutto, il Paese ricomincerà a dover guardare in faccia ai
problemi, gli stessi del 2012, gli stessi di questo micidiale inizio di 2013 mitigato dai fuochi d'artificio della campagna elettorale. In attesa di quel momento gli schieramenti prendono forma e le coalizioni provano ad attribuirsi un obiettivo comune. Quello del centrosinistra riformista guidato da Bersani con Renzi come testimonial, è ovviamente vincere. Con il vantaggio di una insolita compattezza e un limite che arriva dal passato: la sindrome del 2006. Allora Romano Prodi subì la rimonta di Berlusconi, ma riuscì a tagliare il traguardo per primo, 24 mila contestatissimi voti che gli sarebbero costati un «niet» al giorno da parte degli alleati rosso tenebra. Due anni di immobilismo e di voltafaccia degli alleati più estremi, con ministri che andavano in piazza con la Cgil a contestare i provvedimenti del governo del quale facevano parte. Uno spettacolo deprimente e deresponsabilizzante che fece crollare definitivamente l'Ulivo e aprì le porte all'ennesimo ritorno del Cavaliere elettrico. Oggi la replica di un'esperienza simile sarebbe impensabile, l'Italia ha bisogno di un governo che proponga, che discuta, che condivida. Ma soprattutto che decida per il bene dei cittadini, con tre priorità: meno tasse, meno spesa (pubblica), più lavoro. Per farlo serve una maggioranza ampia e va in questo senso la tentazione di Bersani di stringere un patto post-elettorale con Monti. La mossa farebbe imbufalire i vendoliani, presumibilmente pronti a rimettere materassi e comodini sulle barricate. Ma se è vero (com'è vero) che i candidati di Grillo sono culturalmente di centrosinistra, è pensabile che Bersani non abbia neppure bisogno di Monti per allestire una maggioranza vera; basterebbe che strizzasse l'occhio a loro. «Non faremo inciuci con nessuno», tuona Grillo nelle piazze. Apocalittico lui, integrati i suoi. E allora che fa dal 26 febbraio, li tiene a bada con la webcam? Duri e puri, lo sostenevano anche Bossi e Di Pietro, poi furono Scilipoti e Razzi a tenere in piedi per un anno l'ultimo governo Berlusconi. Per un Popolo della libertà non ancora sicuro che la rimonta sia qualcosa di più di un «wishful thinking», una speranza, sembra che l'ordine di scuderia sia: perdere bene. Quindi non lasciare che il Parlamento sia pesantemente di sinistra (almeno 450 onorevoli di area con il premio di maggioranza) e provare a condizionare ogni alleanza. La strategia della Lega, uscita dall'estate della prostrazione e delle scope con la voglia di tornare a ruggire, è ancora più sottile e democristiana: vincere al Pirellone e perdere a Roma. Per Maroni sarebbe il massimo. Un successo alle regionali gli consentirebbe di arroccare il partito in Lombardia, una sconfitta alle politiche gli toglierebbe l'imbarazzo di continuare a camminare al fianco di Berlusconi. «Governare sarebbe comunque impossibile, i problemi sono troppo grandi, il rischio di impopolarità enorme e Berlusconi è sempre più imprevedibile», è lo scenario di un generale leghista a una settimana dalla battaglia decisiva. Naturalmente al Paese non pensa nessuno. Ma quando suonerà la campanella e la ricreazione sarà finita, dovranno pensarci tutti. Sennò ci penseranno due signore con la medicina più amara in mano: frau Merkel e lady Spread.
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