Ieri Atene,oggi Madrid
e domani l'Italia?
- L'ECO DI BERGAMO,Venerdì 20 Luglio 2012
alberto Krali
Anche per gli spagnoli è arrivato il momento della richiesta di aiuto. Ormai il sentiero è tracciato: ci sono passati greci, irlandesi, portoghesi; rimangono ormai solo gli italiani, e tutto fa intendere ancora per poco. Perché la strategia è chiara: l'unica garanzia che rassicuri la Germania è la certezza che i governi dei Paesi deboli dell'eurozona siano sottoposti a vincoli che vadano al di là delle maggioranze politiche presenti nei Parlamenti nazionali. Questo almeno finché non saranno in vigore le modifiche dei trattati che obbligano i singoli Stati a cedere la sovranità in materia di bilancio e di politica economica. Solo a quel punto Angela Merkel potrà rassicurare il suo elettorato e dare al contribuente tedesco la certezza di non dover pagare per gli altri. E il motivo è semplice: in Europa non si muoverà foglia che Berlino non voglia. Gli eurobond sono solo in fondo al percorso, non prima. Di fatto quando non vi sarà più bisogno, perché gli Stati che risanano le loro economie possono agevolmente finanziarsi da soli sui mercati internazionali.
È adesso l'emergenza. Ma il governo centrale tedesco non investe sull'Europa così come ha investito nella ricostruzione della Germania Est. Gli manca la fiducia perché ritiene i Paesi indebitati incapaci da soli di realizzare uno sviluppo economico fondato sulla stabilità finanziaria. Troppa è la tentazione a Sud delle Alpi di avviare la ripresa ancora a debito. Il modello tedesco si fonda su due pilastri: austerità e programmazione. Solo che adesso vi è la traversata del deserto. Prima che venga approvata una politica economica comune gestita a Bruxelles devono passare degli anni. Nel frattempo i Paesi in crisi sono sotto attacco. E da soli non gliela fanno.
Non si pensi che a Berlino vogliano la fine dell'euro. Se crolla l'export comunitario in Germania aumenta di colpo la disoccupazione. E poi senza l'euro la Germania è politicamente più isolata. Quindi l'ideale per i governanti tedeschi è tenere i Paesi della fascia Sud a bagnomaria nel Mediterraneo, non farli uscire dalla moneta unica ma vincolarli a condizioni tassative. Se poi vanno in recessione peggio per loro. Importante è che non si percepisca la sensazione dello scivolo: una via facile all'uscita dalla crisi. Questo vuol dire esautorare la volontà politica di governi democraticamente eletti. Ed è questo il vero problema.
Tutte le coalizioni politiche succedutesi alla guida dei Paesi in crisi sono state chiamate ad una sola scelta: restare o uscire dall'euro. Se decidono di restare a quel punto devono cedere la sovranità in materia di gestione delle finanze pubbliche. È il prezzo da pagare. Altrimenti vanno per la loro strada e riacquistano la loro libertà. Che a questo punto è una sola: quella di fallire. Ecco spiegato perché i greci hanno avuto due elezioni politiche nello spazio di tre mesi e sono arrivati sempre alla stessa conclusione: la libertà in cambio dell'euro. Adesso trattano per avere due anni di dilazione nell'attuazione delle misure di austerità.
Ma è un gioco delle parti. A Berlino fanno la faccia truce, dicono no salvo poi concedere qualcosa. Anche sulle rive della Sprea hanno capito. Il ministro del Lavoro Ursula von der Leyen è chiaro: il rischio è l'effetto domino. Ma l'obiettivo l'hanno raggiunto: Atene è sotto scacco. Così come lo sarà Madrid. E non è un caso che Monti dal primo giorno della sua elezione a capo del governo sottolinei un principio chiaro: l'Italia non chiede niente. Se riuscirà nell'impresa è un miracolo. Perché a questo punto l'alternativa è una sola: o si fanno in modo autonomo politiche di austerità vincolanti anche per i governi che verranno, oppure saranno gli altri a imporle.
Anche per gli spagnoli è arrivato il momento della richiesta di aiuto. Ormai il sentiero è tracciato: ci sono passati greci, irlandesi, portoghesi; rimangono ormai solo gli italiani, e tutto fa intendere ancora per poco. Perché la strategia è chiara: l'unica garanzia che rassicuri la Germania è la certezza che i governi dei Paesi deboli dell'eurozona siano sottoposti a vincoli che vadano al di là delle maggioranze politiche presenti nei Parlamenti nazionali. Questo almeno finché non saranno in vigore le modifiche dei trattati che obbligano i singoli Stati a cedere la sovranità in materia di bilancio e di politica economica. Solo a quel punto Angela Merkel potrà rassicurare il suo elettorato e dare al contribuente tedesco la certezza di non dover pagare per gli altri. E il motivo è semplice: in Europa non si muoverà foglia che Berlino non voglia. Gli eurobond sono solo in fondo al percorso, non prima. Di fatto quando non vi sarà più bisogno, perché gli Stati che risanano le loro economie possono agevolmente finanziarsi da soli sui mercati internazionali.
È adesso l'emergenza. Ma il governo centrale tedesco non investe sull'Europa così come ha investito nella ricostruzione della Germania Est. Gli manca la fiducia perché ritiene i Paesi indebitati incapaci da soli di realizzare uno sviluppo economico fondato sulla stabilità finanziaria. Troppa è la tentazione a Sud delle Alpi di avviare la ripresa ancora a debito. Il modello tedesco si fonda su due pilastri: austerità e programmazione. Solo che adesso vi è la traversata del deserto. Prima che venga approvata una politica economica comune gestita a Bruxelles devono passare degli anni. Nel frattempo i Paesi in crisi sono sotto attacco. E da soli non gliela fanno.
Non si pensi che a Berlino vogliano la fine dell'euro. Se crolla l'export comunitario in Germania aumenta di colpo la disoccupazione. E poi senza l'euro la Germania è politicamente più isolata. Quindi l'ideale per i governanti tedeschi è tenere i Paesi della fascia Sud a bagnomaria nel Mediterraneo, non farli uscire dalla moneta unica ma vincolarli a condizioni tassative. Se poi vanno in recessione peggio per loro. Importante è che non si percepisca la sensazione dello scivolo: una via facile all'uscita dalla crisi. Questo vuol dire esautorare la volontà politica di governi democraticamente eletti. Ed è questo il vero problema.
Tutte le coalizioni politiche succedutesi alla guida dei Paesi in crisi sono state chiamate ad una sola scelta: restare o uscire dall'euro. Se decidono di restare a quel punto devono cedere la sovranità in materia di gestione delle finanze pubbliche. È il prezzo da pagare. Altrimenti vanno per la loro strada e riacquistano la loro libertà. Che a questo punto è una sola: quella di fallire. Ecco spiegato perché i greci hanno avuto due elezioni politiche nello spazio di tre mesi e sono arrivati sempre alla stessa conclusione: la libertà in cambio dell'euro. Adesso trattano per avere due anni di dilazione nell'attuazione delle misure di austerità.
Ma è un gioco delle parti. A Berlino fanno la faccia truce, dicono no salvo poi concedere qualcosa. Anche sulle rive della Sprea hanno capito. Il ministro del Lavoro Ursula von der Leyen è chiaro: il rischio è l'effetto domino. Ma l'obiettivo l'hanno raggiunto: Atene è sotto scacco. Così come lo sarà Madrid. E non è un caso che Monti dal primo giorno della sua elezione a capo del governo sottolinei un principio chiaro: l'Italia non chiede niente. Se riuscirà nell'impresa è un miracolo. Perché a questo punto l'alternativa è una sola: o si fanno in modo autonomo politiche di austerità vincolanti anche per i governi che verranno, oppure saranno gli altri a imporle.
Prima che sia troppo tardi, dichiariamo guerra alla Svizzera ed arrendiamoci subito.
RispondiEliminaconcordo
RispondiEliminama la svizzera vuole solo il nord !!!
libero