Re Giorgio e l'inizio della terza repubblica
Re Giorgio è tornato sul trono per impedire al mondo di ridere di noi. Lo ha deciso sinceramente controvoglia. Lo ha deciso in tre ore dopo che i partiti, in due mesi, non erano riusciti a concordare un governo possibile e un capo dello Stato condiviso. Lo ha fatto per puntellare e integrare con la sua freschezza intellettuale un sistema politico smarrito e sfilacciato, in definitiva incapace di trovare una strada per arrivare a quelle riforme indispensabili per il Paese che i cittadini – come s'è visto anche ieri fuori da Montecitorio – ormai chiedono con la voce roca e lucidando i forconi.
A Roma tira un'aria strana. Si è dimesso un Papa dopo settecento anni, è stato rieletto il capo dello Stato per la prima volta nella storia della repubblica italiana. Se il 2013 prosegue su questi binari c'è da tenere un cardiotonico sul comodino. Più che a una richiesta, Napolitano ha detto di sì a una supplica. Innanzitutto di Bersani, bruciato da due giorni micidiali nei quali ha visto liquefarsi nell'insalatiera ogni candidato proposto con tamburi e trombe. Prima Marini, poi Prodi, tutti impallinati dai franchi tiratori per la cupa soddisfazione di D'Alema e delle 22 correnti prodottesi dalla balcanizzazione del Pd; tutti vittime di una coalizione che ha già perso per strada Vendola, ormai stabilmente insediato nell'anticamera dell'accampamento grillino secondo un'antica tradizione di inaffidabilità. Ma Napolitano ha detto sì anche alla supplica di Berlusconi che, secondo una vecchia immagine paesana «ha vinto solo perché l'ha scampata». Nelle prime votazioni il Cavaliere ha provato sulla pelle le scottature di un parlamento ideologicamente contrario e determinato a chiamarlo ad emendarsi dei compromessi personali costruiti nel suo Ventennio breve. Berlusconi ha capito che, con l'ingresso dei guardiani grillini, la festa è davvero finita. Ed è arrivato a far votare compatto il Pdl - proprio lui - «l'ultimo comunista», come si legge nel titolo della biografia di Giorgio Napolitano. La paura ha fatto novanta, anzi 738; un plebiscito per arrivare a rieleggere la badante di 87 anni che dovrà accompagnare questi piccoli leader della politica invecchiati male lungo i corridoi che portano a un nuovo governo. La speranza è che re Giorgio abbia saputo barattare il suo sì con impegni precisi sulle cose da fare e su come farle. Esecutivo immediato, governo del presidente o di larghe intese con incarico forse ad Amato, impegni precisi su legge elettorale, riforma costituzionale del Parlamento (riduzione delle poltrone), revisione del quadro economico della spesa pubblica. Poi tutti al voto con nuove regole per restituire agli italiani quel senso di serietà e responsabilità che meritano. E, si spera, con nuovi volti. E' ciò che auspica Renzi, è ciò che temono un po' tutti a destra, dove la debordante personalità del leader ha impedito ai delfini di farsi le pinne. Dopo avere notato che il parlamento del rinnovamento non è stato capace di esprimere un presidente nuovo (brutto segno), è giusto evidenziare che Re Giorgio in questi anni è stato il più concreto punto di riferimento dello Stato. Capace di muoversi non solo per affermare, ma per allargare le competenze di una figura chiave della nostra Costituzione. Napolitano è stato legislatore e si è battuto per una nuova legge elettorale. E' stato sprone per l'esecutivo nel chiedere a gran voce quelle riforme che la sordità della classe politica non ha mai voluto prendere in considerazione, dando vita al fenomeno grillino. Ed è stato inflessibile con il terzo potere, quello giudiziario, talvolta vittima di smottamenti impropri nella direzione del Grande Orecchio che tutto controlla e tutto può innescare a orologeria; sulle improprie intercettazioni di Palermo la corte costituzionale gli ha dato ragione. Ora Napolitano può continuare a rappresentare tutti gli italiani. Anche Beppe Grillo, che lo riteneva uno zombie e gridando al golpe ha perso male. Il Movimento 5 stelle puntava tutto su Stefano Rodotà (80 anni fra un mese, decisamente poco new age) e non si capacita per la mancata convergenza di un'ampia ala del parlamento sul nome del presunto rivoluzionario professore. Per avere qualche risposta basterebbe andare su wikipedia, navigare in rete come il popolo del web sa fare e scoprire che Stefano Rodotà conosceva i passi perduti della politica dai tempi di Fanfani, è entrato in parlamento prima di Marini, è stato presidente del Pds di Occhetto, la gioiosa macchina da guerra dissoltasi davanti al primo Berlusconi. Mentre il suo nome risuonava in aula, venerdì Rodotà teneva lezione all'università. Tema: i poteri forti privati. Ecco, lui è sempre stato esperto anche di quelli pubblici. A dispetto del suo profilo ascetico è un leader sferico, abile collezionista di poltrone. E come tale merita un'epigrafe tenera ma definitiva: Rodotà rotolò con dignità.
giorgio gandola - L'ECO DI BERGAMO
Conta ben poco che l mondo rida di noi, oramai anche coloro che si dimostrano in buona salute, sono in braghe di tela. Importa invece che si dia una scossa (troppo bello se fosse 300.000 Volts) a quei puttanieri che stanno in parlamento a nostre spese e senza combinare nulla di buono. Prima di rottamare gli anziani bisognerebbe che altri incominciassero a crescere e smettere di succhiare il biberon.
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